Jacopo da Ponte, soprannominato con il nome della città in cui, ad eccezione dei giovani anni, quando studiò a Venezia, trascorse tutta la sua vita, era comunque popolare in Serenissima. E così tanto che fu Veronese a mandargli il suo allievo. Questa drammatica composizione ebbe anche successo, la cui apparizione coincise con l’epoca della controriforma: la ricerca spirituale di nuovi significati dell’esperienza religiosa, la perseveranza nel resistere alle tentazioni, la “conoscenza libera” e la responsabilità personale.
Nella raffigurazione di Girolamo, personaggio santo della storia cristiana, autore di interpretazioni e scritti polemici, traduttore, si decise di enfatizzare la sua lontananza dalla vanità mondana, dai luoghi popolati. Jerome visse per quattro anni come eremita nel deserto di Halkid, vicino alla città siriana di Antiochia. Secondo la leggenda, si torturò davanti a una crocifissione con una pietra nel petto durante allettanti visioni. Nel deserto imparò l’ebraico.
A Roma fu segretario e assistente di Papa Damas I. Fu su istruzioni del pontefice che tradusse i libri dell’Antico Testamento e il Vangelo dall’ebraico in latino.
Nel 1546, al Concilio di Trento, questa traduzione della Bibbia fu dichiarata canonica e fu chiamata Vulgata. Le vulgate sono tradizionalmente raffigurate come un autore con un libro, a volte lavorando in un ufficio. Jacopo Bassano mostra un vecchio che si arrende al pentimento in una grotta, con una pietra in mano, di fronte a un libro aperto.
Un altro attributo nell’iconografia di Girolamo è il teschio. Tuttavia, qui non è “secondo le regole” in primo piano vicino, illuminato dalla stessa luce mistica dalla semioscurità dell’emaciato, ma non dal corpo ascetico del vecchio. Il crocifisso sembra assolutamente meraviglioso.
Il Dio-uomo, inchiodato sulla croce, fu scritto come se fosse vivo, come se lo spettatore, come studioso e santo di Girolamo, da lontano, ma l’evento stesso appare.